Una carrellata di uomini e donne che si alternano come maschere della commedia dell’arte, ad ogni faccia, ad ogni posizione sociale, è legata una qualità o un difetto dell’anima: il furbo, il geloso, il generoso, i pietoso, l’imbroglione, il bello. Camilleri li introduce con poche pennellate nette e precise, scandite nella sua lingua a tratti amara che abbiamo imparato a leggere: “una trentacinquina, biùnna e formosa”, tre parole che da sole spiegano tutto. Attraverso il loro sguardo descrive ogni volta un aspetto diverso della Sicilia: la dura vita dei campi durante il periodo fascista e quella mondana dell’aristocrazia locale, ma anche i grandi moti di generosità e l’accoglienza che sempre si manifesta quando in paese arriva uno straniero, anche se si tratta della delegazione diplomatica di un regno immaginario. Personaggi che danzano sulle rovine di un’Italia decadente. L’eco della guerra è un bagliore lontano, che si riverbera solo in rapidi lampi sulle colline. Le bombe le sentono più gli asini, le bestie della stalla, che le persone, almeno finché non arriva la chiamata alle armi, finché dalla piazza di Vigàta non parte la corriera con i giovani destinati al fronte.
Racconti carichi di verità e magia. Storie popolari, un po’ favolose, un po’ leggendarie. La raccolta si apre con “Romeo e Giulietta”, ambientato proprio il primo giorno dell’anno del nuovo secolo, il 1900. Se Shakespeare fosse stato veramente siciliano, come dicono alcune fonti recentemente rintracciate, la storia dei due innamorati l’avrebbe scritta proprio così: un ballo in maschera, una fanfara d’imbrogli, incontri clandestini, scambi di persona, mani che si sfiorano e passione caldissima, ma senza nessuna tragica morte. L’epilogo di Camilleri è uno sberleffo, i suoi ragazzi, figli di famiglie rivali, soffrono sì, si struggono, ma sono troppo furbi per morire.
E i figli dei ricconi sono furbi almeno quanto sono ingenui i poveri cristiani. Presi dalla fatica e dagli affanni, raggirati dal destino beffardo eppure pronti a rialzarsi, con l’aiuto di Dio o delle bastonate. San Calò, il Santo eremita dalla pelle nera a cui il paese è devoto, nelle sue molteplici raffigurazioni iconografiche, li protegge. È un santo che favorisce, quando può, i poveracci, i morti di fame e i malati e, in modo speciale, come dice Camilleri, “i poverazzi malati e morti di fame” ed a lui si affidano tutti pregando e offrendo voti. C’è lo zampino di San Calò nella storia commovente de “Le scarpe nuove” e c’è sempre il suo zampino negli altri racconti, otto in tutto, che compongono questa raccolta. Tutti caratterizzati da un guizzo, una sorpresa, un finale emozionante e inaspettato che spiega e risolve la trama. Ancora una volta, quando il racconto finisce, si rimane stupiti e compiaciuti per la scrittura di un grande maestro.
(320p. €14,00)